Un domenica mattina mi trasportarono a Torino, deferita al tribunale militare. Era l’unico tribunale di cui ignorassi l’esistenza, per lo meno per quanto poteva riferirsi a me. Durante la traduzione, incontrai in treno i miei coaccusati: uno non l’aveva mai visto, l’altro era il fratello di una signorina che conoscevo e che mi pare fosse assistente sanitaria visitatrice o qualcosa del genere. Chiesi loro come mai ero coinvolta, ma non seppi niente. Il giovanotto che conoscevo era pieno di lividi ed aveva un occhio grosso così. Immagino che lo picchiarono fino a fargli dire tutto quello che vollero.
Le carceri di Torino furono tutta un’altra cosa. C’era l’orrore del reparto dei fascisti e di quello dei tedeschi, intorno intorno uno spiazzo rettangolare coperto da un’invetriata e parecchi piani di corridoi sovrapposti. Le secondine erano monache. Niente del calore umano di Vercelli. Di Torino ricordo due cose: la prima è la mia compagna di cella, una ragazza del biellese che si chiamava Tosca Zanotti e che era in prigione perché aveva un fidanzato partigiano, arrestato anche lui. Alla sera verso il tramonto, la Tosca si appendeva all’inferriata e cantava, in una direzione che supponeva essere quella in cui si trovava il suo innamorato, una canzone che allora era di moda e che diceva: “tornerai da me”. Aveva paura che lo mandassero in Germania e probabilmente lo fecero.
L’altro ricordo è meno romantico. Si era in marzo e le suore del carcere, a scopo di edificante distrazione culturale, celebravano collettivamente la novena di San Giuseppe, riunendo al piano terreno attorno ad un armonium quelle cui era permesso o che volevano presenziare.
Si cantava la novena e si diceva il rosario. Naturalmente, quando mi si chiese se volevo prendere parte, scattai di gioia: le carceri di Torino sono davvero fatte per eccitare la più sfrenata claustrofobia. Quando mi trovai laggiù con tutte le altre, mi guardai attorno con curiosità ed il mondo è tanto piccolo, ed i reprobi antifascisti tanto numerosi, che scoprii delle facce note, da Cuneo e da Fossano stessa. Là c’era la signorina Ottavia Cosa di cui mai avrei immaginato di dividere la sorte. Non sapevo allora che suo fratello era un valoroso comandante partigiano delle valli di Cuneo. Non occorsero cinque minuti perché le suore si dessero contro che la mia volontaria assistenza alla funzione religiosa non era dettata da sentimenti di pietà. Debbono avermi colta mentre senza accorgermi sorridevo a qualche faccia nota. Mi citarono nel vuoto dello spiazzo, accanto all’armonium e mi ordinarono di cantare da sola, per vedere se ero degna di far parte del coro. Io sono tanto stonata che non oso cantare nemmeno a bocca chiusa, per voglia che ne abbia.
Schiacciata dalla vergogna, ragliai le prime note dell’inno a San Giuseppe e venni immantinenti respinta in cella. Dove, dalla bile, mi sfogai cantando e perdifiato “Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta”. Nessuno venne a farmi tacere.

(Tratto da Monica Schettino (a cura di), Una storia non ancora finita. Memorie di Anna Marengo, Varallo, 2014, pp. 71-73)


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